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Diario: cap. II parte quarta

La mattina del martedì inizia all’insegna delle cose che sfuggono dalle mie mani.
E’ un’escalation di situazioni comiche in cui afferro oggetti e puntualmente questi cadono in terra. E’ come se la forza di gravità oggi fosse di gran lunga maggiore degli altri giorni.
Però sono allegra, propositiva, estremamente intuitiva. E il lavoro ne risente.
Festeggio con me stessa, sola, davanti al caffè (senza caffeina) delle tre…. la mia prima candelina. Il primo mese senza te. Il primo mese in cui ho volutamente resistito alla voglia di scriverti, di mandarti anche solo un pensiero oppure un buongiorno. La prima candelina, a cui dovranno seguire tante altre. Però, per le altre, sarà più facile. Sempre di più.
Illusa.
Torno al mio posto di lavoro ed ecco lì lampeggiare, tra la posta arrivata, il tuo nome.
Panico.
Allora eri qui. Non eri partito per l’Africa.
Mi siedo. E leggo. Una, due, tre volte.
E’ per una richiesta.
Brillantemente infiocchettata. Elegantemente nascosta. Addirittura, alla fine, mi inviti per un caffè.
Ti rispondo scegliendo il tono più professionale che conosco, dandoti completa disponibilità, congedandomi con la possibilità, sì, di un incontro, ma almeno tra un mese, visto il tuo programma di impegni di cui mi hai così generosamente messo al corrente.
Non finisce qui.
Subito dopo chiama un collega. Cerca te.
Comincio a stancarmi di questa persecuzione.
Do’ il tuo numero al collega e finalmente pongo fine alla giornata che mi è sembrata fin troppo pregna della tua presenza.

Il mercoledì inizia piacevolmente. Mi alzo presto, come al solito. In testa ho già quello che devo fare. E poi, nel pomeriggio, avrò il mio appuntamento con me stessa, in palestra.
Ad aspettarmi, sul lavoro, c’è un tuo messaggio.
Mi ringrazi e mi inviti di nuovo per un caffè. PRIMA della tua partenza.
Mi agito. Ho paura di incontrarti. Ma ho una voglia matta di parlarti…
Quando esco dal lavoro mi assale una sorta di febbre. E non ce la faccio a resistere alla voglia di chiamarti.
Mentre aspetto la metro, tira un vento caldo, quasi estivo. Mi investe la faccia e mi manca il fiato.
Il cuore è agitato.
Seleziono dalla rubrica del telefonino il tuo nome e spingo “invio”.
Dall’altra parte squilla, ma subito viene bruscamente interrotto.
“Ecco. Ha da fare”.
Meglio. Sarei stata patetica.
La metro passa ed io scompaio nel tunnel con lei.
Risalgo in superficie dopo un po’. Pacatamente raggiungo il mio treno e mi sistemo.
Non so descrivere lo stato d’animo che ho. Il vento caldo continua a soffiare.
Ti invio un messaggio, a giustificazione della chiamata precedente. Pensavo, in effetti, di aver sbagliato a dare il tuo numero a quel collega.
Mi richiami immediatamente.
La tua voce è…. incredibile. Non ce la faccio quasi a parlare.
E’ come se stessi lì con me, sul treno. Che condividessi questa parte così intima della mia giornata, quando finalmente, dopo tanto correre, posso rilassarmi e godermi il viaggio verso casa.
Sono pochi minuti di conversazione. Ti parlo del mio programma di domani con i miei ragazzi.
E, ascoltandomi, mi hai definita “piccola” rispetto a loro già autonomi e grandi.
Ecco che, di nuovo, una parola all’interno di una frase lascia sospeso il mio cuore. La interpreto come una pubblicità subliminale.
E’ una “coccola” confusa nel fiume dei discorsi. Non so perché sia così.
E’ la mia follia che fa travisare ogni cosa?
Mi resta però una sensazione di vento caldo sulla pelle, che accalora un po’ il viso e mette addosso qualche brivido. Per cui ti rannicchi un po’, abbracciandoti le spalle, chiudendoti su te stessa, abbassando gli occhi e respirando profondamente.
Così il calore invade il tuo corpo e rinnova il tuo spirito.

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